venerdì 15 agosto 2008
IL CAPO DESPOTA
Noi tutti vorremmo che il capo fosse una guida sicura, che ci trasmettesse forza e certezza, che fosse, equanime e giusto. Invece, molto spesso, ci troviamo di fronte a dei superiori che sono esattamente il contrario, instabili e capricciosi e talvolta abbiamo l'impressione che essi considerino prerogativa del potere proprio la possibilita' di essere imprevedibili e umorali. Che cosa spinge costoro ad agire in questo modo? Poter assaporare il senso di forza, di sicurezza che nasce dall'esercizio del potere nella sua forma piu' pura, primordiale. Il potere assoluto e' quello che non e' soggetto a nessuna legge. Neanche alla legge della logica, della coerenza. Il despota non deve dare spiegazioni e giustificazioni. Qualunque cosa faccia ha sempre ragione. Tiene gli altri nel suo pugno, tremanti o schiumanti di rabbia impotente. In quel momento si sente onnipotente, una divinita'. Ma questo atteggiamento è utile per i bisogni dell'azienda? Ecco alcuni esempi: nel 1998 la Deimler - Benz aveva un utile di 5,7 miliardi di dollari mentre 3 anni dopo era in perdita di 1 miliardo cosa era successo? Il manager numero uno Jurgen Schrempp aveva sfinito l'azienda a colpi di acquisizioni inutili (Mitsubishi, Hyundai...) governando con uno stile «dispotico»: tutti i manager che si erano opposti erano stati rapidamente messi fuori gioco e sostituiti da una squadra di nuovi dirigenti «leali e devoti». Fatti privati della DaimlerChrysler? Niente affatto, una vera e propria sindrome, un insieme di comportamenti sbagliati che, se non sono conosciuti e prevenuti dalle organizzazioni aziendali, portano inevitabilmente alla crisi. Insomma, la sindrome da burnout, fatta di crescita aziendale rapida ed eccessiva, leadership autocratica e cultura del successo tutta basata sullo stress e sulla dura competizione tra i dipendenti (la logica dell' «up or out» o avanzi in carriera o è meglio che ti dimetti) è in grado di sfiancare fino alla crisi qualunque azienda di successo. Sul versante opposto, però, è in agguato un' altra insidiosa sindrome aziendale, quella del «prematuro invecchiamento». Ne sanno qualcosa i grandi magazzini americani Kmart, la Eastman Kodak o la Motorola, che sono passate attraverso gravi crisi. Tutto a causa di periodi di «crescita stagnante», di un' eccessiva resistenza al cambiamento (Kodak aveva sottovalutato l' avvento del digitale, Ibm l'era dei Pc e General Motors il trend dei cosiddetti Suv), di una leadership debole con i manager intermedi e con i sindacati, di un' organizzazione burocratica e di una cultura delle basse performances basata su stipendi fissi e promozioni di anzianità. E, allora, se non funziona né un estremo né l' altro? La conclusione è piuttosto scontata: per essere aziende sempre esenti da crisi, tipo Bmw, General Electric, Siemens o Toyota, bisogna trovare il giusto equilibrio. Occorre puntare a crescite sostenibili e a cambiamenti controllati, non concentrare il potere nelle mani di pochi manager, bilanciare rivalità e cooperazione tra i dipendenti. Insomma, nulla più di un notissimo «in medio stat virtus». Ma non l' avevano già detto i Romani?
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